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Le strane regole sull’indicazione di origine e provenienza dei prodotti alimentari

Articolo tratto dal numero 9 di Slowzine




Nel corso degli anni, si è fatta sempre più sentita l’esigenza, da parte dei consumatori, di conoscere la provenienza degli alimenti destinati alla propria tavola.

Sono emblematici, in tal senso, i risultati della consultazione pubblica sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari che è stata condotta da ISMEA, a cavallo tra i 2014 ed il 2015, per conto dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali: su oltre 26.500 partecipanti, più del 96% ha dichiarato di considerare molto importante che sull'etichetta sia scritta in modo chiaro e leggibile l'origine dell'alimento, mentre per l'84% è fondamentale l’indicazione del luogo in cui è avvenuto il processo di trasformazione. Gli stessi risultati sono stati peraltro confermati da una successiva indagine demoscopica svolta, sempre da ISMEA, tra dicembre 2018 e gennaio 2019 (1) .


Purtroppo, fino ad oggi la normativa alimentare non è riuscita a soddisfare adeguatamente questa richiesta, imponendo la piena trasparenza dell’etichetta in merito all’origine ed alla provenienza degli alimenti messi in commercio.


È vero che il regolamento (UE) 1169/2011 (2) , che disciplina l’etichettatura alimentare, nell’elenco delle informazioni obbligatorie sui prodotti preimballati include anche il “Paese di origine o luogo di provenienza” (articolo 9).


In realtà, però, ad oggi tale indicazione non è stata resa obbligatoria in via generale. Secondo l’articolo 26 del regolamento, difatti, deve essere presente in etichetta soltanto “nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento”.


In particolare, l’obbligo di riportare l’origine o provenienza sussisterà qualora, sulla stessa etichetta, siano presenti anche altre diciture o immagini che possano, di per sé, suggerire un’origine o provenienza del prodotto diversa da quella effettiva. Esemplificativamente, si pensi ad un prodotto denominato “pizza margherita” o “pizza bella Napoli” ma realizzato all’estero, oppure ad una birra prodotta nelle Marche ma accompagnata dall’indicazione “100% di orzo trentino” o da un disegno delle Dolomiti.

In assenza di elementi “suggestivi” di questo genere, invece, in via generale la specificazione dell’origine o provenienza è rimessa alla libera scelta dell’operatore.


Ma non è tutto. Perché anche quando risulta necessario riportare l’origine in etichetta, il consumatore rischia di ricevere un’informazione parziale e non rispondente alle sue esigenze di trasparenza.

Il problema riguarda, in particolare, l’identificazione dell’origine in tutti i casi in cui la produzione dell’alimento abbia, in qualche modo, coinvolto più Paesi diversi (perché, ad esempio, gli ingredienti che compongono l’alimento hanno diverse provenienze, oppure perché le varie fasi del processo produttivo sono state svolte in Paesi differenti). In queste ipotesi, la normativa di riferimento – che è quella contenuta nel codice doganale europeo e riguarda qualunque tipo di merce, anche non alimentare (3) – stabilisce che l’origine del prodotto corrisponda al Paese in cui è avvenuta “l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale … che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

L’inadeguatezza di una tale definizione emerge ove si consideri che, per esempio, un succo di pere ottenuto da materie prime estere lavorate nel nostro Paese riporterà in etichetta l’origine italiana. La medesima origine potrebbe, potenzialmente, essere indicata per una birra interamente prodotta all’estero, che abbia però subito in Italia una maturazione finale in botte che abbia inciso in misura rilevante sulle caratteristiche del prodotto.


C’è da dire che, in casi di questo tipo, un parziale contributo alla trasparenza è fornito dalle ulteriori regole sull’indicazione dell’origine o provenienza dell’ingrediente primario, stabilite dall’articolo 26 del già regolamento (UE) 1169/2011 e dalle relative norme di applicazione (4) .

Nello specifico, tutte le volte in cui l’etichetta evidenzia l’origine o provenienza dell’alimento, deve anche essere indicata l’origine o provenienza dell’ingrediente primario del prodotto, se diversa dalla prima. Quindi, tornando all’esempio precedente del succo prodotto in Italia con pere coltivate in un altro Paese, se è indicata l’origine nostrana del succo dovrebbe anche essere riportata l’origine estera delle pere.


Purtroppo, anche sotto questo aspetto la normativa presenta dei limiti non indifferenti. Non soltanto per la mancanza di un criterio chiaro per stabilire quali tra gli ingredienti del prodotto debbano considerarsi “primari” (problematica articolata, che non avrebbe senso approfondire in questa sede) ma, soprattutto, a causa delle modalità con cui l’indicazione dell’origine/provenienza può essere fornita.

Attualmente, infatti, non è necessario che l’etichetta identifichi con precisione quali siano i Paesi di produzione dell’ingrediente primario, potendo limitarsi ad indicare genericamente: “origine UE” o “origine non UE” o, addirittura, “origine UE e non UE” – dicitura la cui unica utilità è rassicurare il consumatore sul fatto che l’ingrediente è stato ottenuto sul pianeta Terra e non all’interno di una serra marziana.

In alternativa, l’obbligo di informazione può essere assolto dichiarando, con una formula persino più vaga, che l’origine/provenienza dell’ingrediente primario “non corrisponde all’origine o provenienza dell’alimento”.

In definitiva, la strada da percorrere è ancora lunga prima di veder pienamente garantito l’interesse – assolutamente lecito – del consumatore a poter decidere cosa acquistare anche in base alla sua provenienza geografica.

Per completezza, occorre comunque chiarire che la normativa illustrata in precedenza riguarda i prodotti alimentari preimballati in generale. Per alcune specifiche categorie di alimenti, infatti, sono previsti obblighi ben più rigorosi. Sui quali ci si potrà eventualmente soffermare in un prossimo articolo.


Per contattare lo studio:

Via Filippo Serafini, 9

0461 230084


(1) ISMEA Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, Indagine sull’etichettatura dei prodotti agroalimentari, Sintesi dei risultati e della Metodologia, reperibile al seguente link: https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/001/389/ISMEA_13_marzo_Indagine_etichettatura_sintesi_risultati.pdf


(2) Regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011, “relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori”, che rappresenta il testo normativo fondamentale sull’etichettatura dei prodotti alimentari, reperibile qui: https://eur-lex.europa.eu/eli/reg/2011/1169/2018-01-01


(3) Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il Codice Doganale dell’Unione, reperibile qui: https://eur-lex.europa.eu/eli/reg/2013/952/2020-01-01


(4) Contenute nel regolamento di esecuzione (UE) 2018/775 della Commissione, del 28 maggio 2018.

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