Nelle fasi critiche della storia, caratterizzate da paure ancestrali come quella della fine del mondo riferita all’anno mille o da eventi calamitosi come epidemie e guerre, la montagna è stata percepita alla stregua di un ambiente rifugio. A questa fatale vocazione non si è sottratta neppure l’estate dell’anno 2020. Nonostante le parziali sicurezze tecno-scientifiche, l’umanità ha riscoperto la fragilità della propria condizione esistenziale alla quale non era più abituata da molto tempo. Le false certezze propinateci negli anni della nascita del “villaggio globale”, dell’omologazione mondializzata dove tutti fanno le stesse cose, vanno in vacanza negli stessi posti anonimi, si nutrono degli stessi cibi in modo veloce e standardizzato, hanno fatto dimenticare il senso del limite. La presunta onnipotenza della scienza che tutto vorrebbe prevedere e della tecnica che tutto vorrebbe dominare hanno fatto affiorare il nervo sensibile della imprevedibilità. Nessuno avrebbe immaginato che la diffusione pandemica di un virus nel progredito XXI secolo ci avrebbe fatto rivivere situazioni simili a quelle della peste di Milano del 1630 descritta dal Manzoni o all’epidemia di “spagnola” del 1918. Tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento il grande demografo Thomas Malthus segnala l’esistenza di una montagna salubre e terapeutica. In un celebre saggio sulle popolazioni menziona un villaggio delle Alpi svizzere che, nel corso dei secoli dalla sua fondazione, era rimasto sostanzialmente immune dai contagi epidemici che avevano funestato l’Europa. La citazione della sconosciuta località alpina svizzera innescherà un interesse prima impensabile verso la montagna. Da quel momento si incominceranno a frequentare le Alpi non soltanto per la conquista alpinistica delle vette o per l’esplorazione naturalistica ma anche per ragioni di salute e di vacanza. Il turismo montano ottocentesco era un turismo socialmente elitario e culturalmente consapevole. Nella seconda metà dell’Ottocento nascerà ancora in Svizzera, a Sankt Moritz, il turismo invernale della neve. Fra le due guerre mondiali la frequentazione delle montagne diventerà sempre più di massa ma, comunque, contenuta entro limiti sostenibili. Il vero e proprio boom turistico si affaccerà nel secondo dopoguerra con la crescita del benessere e il diffondersi del consumismo. Tuttavia, a beneficiarne sarà sempre di più la montagna invernale legata allo sport dello sci. La vacanza estiva in montagna registrerà un lenta ma progressiva contrazione fino a qualche anno fa. Nessuno avrebbe immaginato il boom di questa strana estate. Il riferimento alla paura della pandemia di Covid-19 ha fatto scoprire il valore del turismo di prossimità, il significato di luoghi prima snobbati o ignorati nel nome di un mistificante esotismo di lontananza. Frotte di neofiti della montagna hanno invaso prati e boschi, sentieri e paesi, spesso senza una adeguata consapevolezza e rispetto. Gli spazi aperti della montagna hanno certamente contribuito ad allentare la paura del contagio, hanno dato nuova linfa agli operatori turistici evitando la disfatta economica. Esiste però il rovescio della medaglia di questa orgia predatoria delle terre alte che si è tradotta nella violazione dei limiti e della fragilità della montagna. Questo tipo di frequentazione turistica non è sostenibile se non scattano gli anticorpi della consapevolezza dei luoghi. Per molta gente un posto vale l’altro e ogni località si trasforma in un “non-luogo”. Quando l’alpinista inglese Lesley Stephen, padre di Virginia Wolf, definisce le Alpi: «Playground of Europe / Terreno di gioco dell’Europa» non pensava certamente a questi scenari devastanti. La sua espressione faceva riferimento alla capacità ricreativa della montagna quale spazio di azione degli alpinisti, non già alla logica del “mordi e fuggi” alla quale stiamo assistendo. Se non si pongono limiti a questo tipo di fruizione il rimedio rischio di diventare peggiore del male. L’auspicio è che questo nuovo interesse per la montagna possa proseguire nel segno della sostenibilità, del rispetto dei luoghi, della controcultura della lentezza nell’andare, nel mangiare, nel vivere. In ultima analisi, un elogio della filosofia “slow”.
Annibale Salsa per Slowzine, numero di settembre 2020
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