top of page

Post del forum

SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
25 apr 2021
In Road to mountains
L’incontro con Simone Vagni ci porta alla scoperta della Roveja di Civita di Cascia. La sua azienda si chiama Terre riunite Alta Valnerina, siamo nell’entroterra umbro, nell’Altipiano di Ocosce tra gli 800 e i 1.000 metri, affacciati sopra lo scoglio di Santa Rita e a est incorniciata dai monti Sibillini. L’azienda agricola è molto vasta e si estende per circa 130h, per circa l’80% coltivati producendo cereali, zafferano, foraggi e legumi. Tra questi spicca la roveja, un piccolo legume, simile al pisello dai colori che variano dal verde al rossiccio. Tradizionalmente era un alimento fondamentale nella dieta di pastori e contadini al pari di altri legumi poveri come le lenticchie, la cicerchia e le fave. Cresceva in forma selvatica. Ma nel corso degli anni la sua coltivazione è stata abbandonata preferendo colture più+ redditizie. Simone ne ha riscoperto il valore insieme ad altre tre aziende locali che insieme hanno redatto un disciplinare che prevede che non ci siano trattamenti, concimazione organica, diserbo manuale e irrigazione solo in casa di siccità. La roveja viene seminata in primavera e raccolta tra ultimi giorni di giugno e ultimi di luglio. Il suo fusto esile si carica di baccelli che causano l’allettamento della pianta costringendo alla raccolta manuale. Scalciati gli steli si lasciano sul campo ad essiccare. Quando l’essiccamento è completo si portano sull’aia e si trebbiano, con dei setacci si tolgono le impurità dalla granella. È un legume molto proteico con alto contenuto di carboidrati, fosforo, e potassio. Gli usi gastronomici sono molteplici. Si può cucinare fresca oppure essiccata. Simone realizza anche la farina o delle gustose salse. Il piatto tipico è però la farecchiata, una polenta tradizionale condita con aglio, olio e acciughe. All’incontro è intervenuta anche Silvana De Carolis, referente dei produttori e a sua volta titolare di una azienda agricola. Si è trasferita qui quarant’anni fa e ha dedicato gli ultimi anni alla riscoperta di questo piccolo legume. In una vecchia cantina di Civita di Cascia scovò dei barattoli in vetro con diversi semi tra cui quelli di roveja che per anni rimangono dimenticati finché in un libro del professor Giacche legge in un antico statuto del comune di Sellano dell’obbligatorio di seminare la roveja. Da qui inizia la riscoperta del legume che nel 2006 diventa Presidio Slow Food. La voce di Silvana si fa rotta quando racconta la tragedia del terremoto del 2016-2017. Racconta la tragedia di quei giorni e le difficoltà della lenta ricostruzione e, ancora peggio, dell’abbandono da parte dello Stato e delle istituzioni e le necessità di ricostruire tutto contando solo sulle proprie forze. Il figlio di Silvana, Marco De Carolis ha un agriturismo situato in un antico complesso religioso risalente all’anno mille nel verde della Valle Fuina. Si chiama La Valle dei Bronzetti e propone i prodotti locali coltivati dall’azienda agricola. Le difficoltà, soprattutto dopo il terremoto, sono molte. Le estati brevi, il freddo, gli sbalzi di temperatura rendono il raccolto sempre più difficile, gran parte della produzione ogni anno si rovina e non è utilizzabile. Ma la passione per il territorio spinge Simone a non abbandonarlo nel sogno di poter aprire un giorno un agriturismo e magari riuscire a intercettare un turismo attento alla terra e alle sue produzioni.
Road to mountains 9: la roveja di Civita di Cascia content media
0
0
21
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
25 apr 2021
In Road to mountains
Vincenzo Patrone, produttore del Dolcetto dei terrazzamenti della Val Bormida, ci permette per la prima volta di parlare di vino nel corso degli incontri “Road to mountains”. Un tema particolarmente importante per il nostro territorio. Il Presidio è legato alla viticoltura eroica che Vincenzo, insieme ad altre quattro aziende agricole, porta avanti sui ripidi terrazzamenti dell’Alta Langa. Il Presidio riguarda tre comuni in quest’area al confine con la Liguria, nel comune di Cortemilia, il principale, troviamo l’azienda di Vincenzo e l’azienda Barberis – Cascina San Lorenzo, a Torre Bormida l’azienda Cesare Canonica e a Perletto l’azienda Roccasanta di Pietro Monti. Vincenzo è l’esponente della terza generazione di viticoltori. Ha realizzato il sogno di non dover scappare da questi luoghi e anzi, come è successo nelle altre aziende, il ricambio generazionale ha portato innovazione e nuove prospettive alla lunga tradizione di coltivazione della vite sui terrazzamenti. Una tradizione antichissima che risale a duemila anni fa, da quando si è iniziata a sviluppare l’agricoltura nella zona, sono stati costruiti a mano e a secco. Venivano realizzati partendo dalla cima creando i terrazzamenti che oggi il Presidio vuole tutelare e salvaguardare. La vigna è coltivata come veniva coltivata cinquant’anni fa, anche nei vigneti più nuovi, mentre le tecnologie per vinificazione son state aggiornate secondo i moderni parametri. L’azienda produce un’ampia gamma di vini ma è il Dolcetto dei terrazzamenti il prodotto distintivo. Sono vini influenzati dal microclima ligure e del mare e dalla mitigazione creata dalla pietra di langa. Il risultato è percepito soprattutto dall’eleganza dei sentori olfattivi. La caratterizzazione del Dolcetto è stata studiata e condivisa insieme agli altri produttori per riuscire a differenziarsi. Grazie a un diradamento estivo molto intenso si è ottenuto un vino molto morbido, vellutato, con una buona acidità che dona una freschezza lunga. La storia della Val Bormida è stata segnata da due momenti drammatici. In primis lo spopolamento del Secondo dopoguerra legato allo spostamento in città per lavorare nelle grandi industrie piemontesi. E ancora prima il disastro ambientale dell’ACNA di Cengio, l’azienda di coloranti che per decenni ha inquinato le acque del fiume Bormida e tutto il territorio. Il settore agricolo è stato disintegrato dall’inquinamento e per molti anni quindi i terrazzamenti e i terreni coltivabili sono stati abbandonati. Le nebbie causate dall’industria chimica venivano assorbite dalle piante e i veleni trasferiti nel vino. Il bosco ha rubato spazio alle aree coltivate modificando un paesaggio che l’uomo aveva forgiato con la sua azione nel corso dei secoli. La Valle è rinata da pochi anni grazie alle lotte delle popolazioni locali. Simbolicamente la rimozione del divieto di balneazione nel fiume è stato il momento del riscatto e l’inizio di una nuova era in cui i giovani hanno cominciato a fermarsi nuovamente nella valle e ritornare all’agricoltura. Tra le difficoltà che devono affrontare coloro che si dedicano al recupero dei terrazzamenti al primo posto vi sono le complicazioni legate al riappropriarsi di questi spazi. Per bonificare il bosco è necessario pagare dei costosi crediti compensativi. Una contraddizione frutto, ancora una volta, di un ambientalismo ideologico e cittadino che non conosce le vere problematiche delle aree interne. Per questo gran parte dei terrazzamenti sono ancora abbandonati mentre fino a cinquant’anni fa tutte le colline dell’Alta Langa, anche ad altezze fino ai 900 metri, erano coltivate. Su questo tema è intervenuto il professor Annibale Salsa che ha raccontato di come abbia vissuto in prima persona il dramma della Val Bormida, avendo vissuto in quest’area dove la famiglia aveva delle vigne proprio sui terrazzamenti. Salsa ha raccontato la fatica del padre per cercare di recuperare i terrazzamenti. Da difensore del paesaggio e dell’ambiente Salsa ha sottolineato come questo sia un ambientalismo con visione ideologica e idealizzata che fa male all’ecologia. Va invece difeso un paesaggio qualificato dall’agricoltura, nel paesaggio vi è la natura con la sua parte selvaggia ma anche la parte culturale realizzata dall’uomo. L’avanzamento del bosco crea inoltre dei problemi nuovi. Come quelli legati al dissesto idrogeologico causato dal fatto che l’uomo non gestisce più le acque e il proliferare di specie non autoctone di animali selvatici. Vincenzo ricorda che in questa zona marginale, insieme si va più lontano, le quattro aziende produttrici di Dolcetto sono tutte alla terza generazione. A Terra Madre i produttori si presentano con uno stand unico per proporsi come Presidio, cercando di favorire l’accesso al mercato di tutti. Sono stati superati campanilismi e egoismi del passato per creare una vera comunità. All’incontro ha partecipato anche Maddalena Nardin, titolare della Cantina Villa Corniole in Val di Cembra. Maddalena ha portato l’esperienza della viticoltura eroica sui terrazzamenti della valle trentina creando un dialogo con il racconto di Vincenzo. Ogni incontro di “Road to mountains” si chiude chiedendo quali sono le prospettive a lungo termine del progetto. Vincenzo vede il proprio futuro legato alla speranza che il figlio, nato solo un mese fa, possa proseguire nella valorizzazione dei terrazzamenti e nel custodire il grande patrimonio ereditato dalle generazioni precedenti. Vincenzo auspica che il Dolcetto dei terrazzamenti possa sbarcare in nuovi mercati aumentando la conoscenza dell’Alta Langa e portandovi un turismo di qualità. Anche Maddalena vede il futuro della sua azienda legato alle nuove generazioni. Alle tre figlie è stato dedicato il Trentodoc Salisa, acronimo di Sara, Linda e Sabina.
Road to mountains 8: il Dolcetto dei terrazzamenti della Val Bormida content media
0
0
43
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
11 apr 2021
In Road to mountains
Il breve incontro con Pietro Asci ci ha portato a scoprire il Presidio dei mieli dell’Appennino Aquilano. Una produzione che avviene partendo da un’altitudine minima di 850 metri e che è condivisa da un gruppo di una decina di apicoltori. Due mieli sono monofloreali e provengono da altrettante aree vocate sul versante aquilano del Gran Sasso per quanto riguarda la santoreggia e nell’area marsicana del Massiccio del Sirente Velino per la stregonia. Il miele di santoreggia ha un colore ambra chiaro, tendente al giallo verde quando è liquido e al grigio-verde se cristallizzato. Ha una consistenza morbida e piacevole in bocca. Viene ricavato dalla Santureja montana un piccolo arbusto della famiglia dl timo caratterizzata da un profumo più intenso. La sua stagionalità è legata alle piogge di fine luglio. Se l’estate è siccitosa già a fine autunno il prodotto è esaurito. Viene consumato sul pane o per insaporire tisane. Il miele di stregonia è caratterizzato un colore più chiaro, rimane liquido a lungo non cristallizzando e ha un sentore lievemente floreale. La stregonia è un arbusto che arriva ad altitudini molto elevate, sfiorando i 2.000 metri. Fiorisce tra maggio e giugno regalandoci piccoli fiori gialli. Oltre ai monoflora gli apicoltori realizzano un millefiori di montagna, prodotti sui pascoli, dai profumi e dai sentori caratteristici. Tra le piante che concorrono alla sua produzione possiamo trovare Eryngium, Marrobio, Verbasco, Issopo, Stachys, Odontites, Timo Serpillo ecc. La qualità del miele è eccellente poiché nella zona non esistono attività agricole o zootecniche intensive ma solo esperienze a basso impatto ambientale. La vegetazione spontanea è quindi ricca di specie e l’ambiente non è inquinato. L’altitudine è direttamente connessa alla ricchezza di biodiversità. L’attività degli apicoltori non è ancora diventata fonte di sostentamento esclusivo per le loro famiglie ma rimane sempre un lavoro secondario. Il prodotto ha un mercato locale ed esiste un punto vendita dedicato. I produttori del Presidio con il loro impegno mantengono viva e tutelano la biodiversità dei pascoli montani.
Road to mountains 7: Mieli dell'Appennino aquilano Presidio Slow Food content media
0
0
9
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
14 mar 2021
In Road to mountains
I Nebrodi sono una catena montuosa che si estende da Messina a Palermo, affacciata sul Mar Tirreno proprio di fronte alle isole Eolie. Sono un Parco naturale caratterizzato da un paesaggio ancora rurale e incontaminato, il cuore verde della Sicilia con i suoi 50 mila ettari di boschi. Uno scrigno di biodiversità che l’azione di alcuni visionari dipendenti della regione Sicilia, di Slow Food e di alcune aziende del territorio sono riuscite a tutelare. Tra questi il Presidio del suino nero dei Nebrodi è una delle esperienze più importanti. Un censimento di metà anni Ottanta rilevò che sul territorio ormai erano solo 300 i capi riproduttori residui di questa razza rustica e frugale. Per salvarla dall’estinzione è iniziata una ricerca finalizzata anche a capire come valorizzarne le carni non solo per la produzione del fresco ma anche di insaccati e rendere così sostenibile economicamente l’allevamento. Si è capito che la caratteristica ritenzione dei liquidi delle carni del suino nero rendevano necessaria una lunghissima stagionatura per dar vita a dei prodotti di alta qualità. Si tratta di razza antica che seguiva però gli allevamenti principali di bovini e ovini e che veniva allevata per uso esclusivamente domestico. Solo con l’inizio della trasformazione della carne in insaccati di qualità è iniziata la riscoperta di questa razza. Ci racconta queste storie Enzo Pruiti, memoria storia del Presidio, per una vita dirigente dell’ufficio assistenza tecnica della Regione Sicilia. Il miglior metodo di allevamento del suino nero è un allevamento all’aperto organizzato. Infatti le bestie selvatiche subiscono lo stress legato ai predatori e anche al traffico stradale che ha ripercussioni sul benessere dell’animale. Nei recinti i suini vivono con grandi spazi a disposizione, prodotteti, e alimentati solo con mangimi ghiande. Al centro dei recinti si trovano le caratteristiche “zimme”, strutture coniche di fango e legno ricoperte di pietre, in cui trovano ricoveri gli animali in inverno. Sono più di 40 le aziende che all’anagrafe denunciano la presenza di suini neri dei Nebrodi. Per la maggior parte però, racconta Enzo, si tratta di presenza limitata e non valorizzata che ha il solo obiettivo di veicolare sulle aziende i fondi europei per la tutela delle specie autoctone. Solo sette sono le aziende che hanno sposato il progetto del Presidio. Allevano i suini e ne realizzano carne fresca e trasformati con la massima attenzione al benessere animale. La difficoltà maggior del Presidio è l’assenza di una filiera organizzata per la commercializzazione del prodotto. Anche se il suino è presente sulle tavole dei ristoranti locali e le ricette che ne vengono realizzate sono il cavallo di battaglia che richiamano nel fine settimana da Messina e Palermo chi vuole assaggiare la gastronomia del territorio. Il suino nero è diventato uno degli elementi di attrazione del territorio anche grazie alle numerose sagre dedicate nei vari paesi. Il Presidio Slow Food e la partecipazione anno dopo anno al Salone del Gusto hanno permesso di far conoscere i trasformati nelle migliori gastronomie italiane. Luisa Agostino è titolare con il marito dell’azienda La Paisanella, una delle aziende produttrici che dal 1996 a Mirto alleva il suino di Nebrodi. Ci racconta della difficoltà di allevare un suino che ha una crescita molto lenta e ha un apporto di massa grassa sul muscolo. Questa massa grassa, però, ha una componente importante di acidi grassi e le carni hanno una buona ritenzione idrica per cui trattengono ferro, vitamine, sali minerali, zuccheri e quant’altro. Quindi, è una carne salutare. Luisa e la sua azienda son riusciti a creare una rete intorno a loro coinvolgendo altri allevatori locali che hanno deciso di allevare il suino dei Nebrodi nonostante i costi molti elevati rispetto al suino rosa ma consapevoli dell’importanza per il territorio. Sono molti i giovani che portano avanti le aziende dei Nebrodi. Tra questi anche il figlio di Luisa, Vincenzo, di 23 anni che si occupa del salumificio, mentre la nipote lavora in macelleria. La tradizione di famiglia quindi prosegue nella nuova generazione. Anche la giovanissima Maria Grazia sta studiando Economia e management per poter poi sostenere lo sviluppo dell’azienda. Anche le altre realtà sono giovani, le nuove generazioni stanno subentrando ai genitori oppure fondano nuove attività. La cooperativa Locale Naturamica è condotta dal trentenne Eric Fabio. Leo Corrado, invece, ha fondato l’azienda più giovane e che alleva più in alto i suini neri. Luisa è produttrice di un altro presidio locale, la Provola dei Nebrodi. Un formaggio a pasta filata ottenuto con latte crudo di una razza indigena che da metà aprile a ottobre raggiunge con la transumanza le alture dell’Etna pascolando in libertà. La biodiversità dei Nebrodi è testimoniata dalla presenza di altri tre Presìdi. Si tratta dell’Oliva minuta, cultivar presente in soli 3.000 ettari sui Nebrodi, e ultimo arrivato il Presidio del Fagiolo dei Nebrodi. Quest’ultimo racchiude sette varietà di fagioli coltivate da dieci produttori, un progetto nato con la Banca vivente del Germoplasma vegetale Dei Nebrodi di Ucria.
Road to mountains - 6° incontro: suino dei Nebrodi Presidio Slow Food content media
0
1
27
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
14 mar 2021
In Road to mountains
Ascoltare la storia del Pero misso e della sua riscoperta porta con sé una sensazione di intimità e di famiglia. Il Pero misso è una varietà antica che conta solo qualche decina di piante selvatiche sulla Lessinia, si stima che siano circa 200. Vi sono testimonianze di un fiorente mercato di Pero misso nell’Ottocento, il frutto veniva apprezzato soprattutto per la sua capacità di conservarsi anche nel periodo invernale. Una tesi di laurea mise in evidenza che tra tutte le varietà di frutti selvatici presenti sul territorio, il Pero misso era quello a maggior rischio di scomparsa: nessuno riproduceva più le piante e non si trovavano nei vivai. Alcune aziende del luogo, Dipartimento di Agronomia e Produzioni Vegetali della Facoltà di Agraria di Padova, in collaborazione con l'Istituto sperimentale di frutticoltura Veronese, e Slow Food si misero quindi all’opera per salvarlo. Oggi sono due le aziende che portano avanti la coltivazione del Pero misso e tra queste l’azienda di Bibbiana Righetti e della sua famiglia. Bibbiana, Bibbi la chiamano gli amici, era una sarta della Verona bene fino a quando decise di abbandonare la città e seguire l’azienda del suocero dedicandosi al Pero misso. Ci mostra con orgoglio le fotografie di queste maestose piante, alte fino ai 15 metri. L’età presunta degli alberi va dai 50 ai 200 anni, alcune piante sono iscritte al registro dei Patriarchi della natura, veri e propri monumenti che vanno tutelati. La raccolta viene effettuata oggi con delle piattaforme aeree, il Pero misso è infatti una pianta “permalosa”, i rami sono delicati e si spezzano facilmente. Anticamente le pere venivano raccolte con la perarola, un cestello a denti che oggi è stato quasi completamente dimenticato. Il pero viene ancora oggi raccolto tra la fine di settembre e metà ottobre quando è ancora acerbo. Alla raccolta il Pero misso è ricco di tannini, l’effetto astringente le rende quasi immangiabili. Ma nel corso dell’avanzamento della maturazione i tannini si trasformano in zuccheri. Quando il pero è completamente marrone è pronto per il consumo, dolcissimo e con un sapore caratteristico. Ha subito il processo di ammezzimento, come avviene per i cachi o per la nespola. Proprio per queste sua caratteristiche particolari il Pero misso viene utilizzato in gastronomia in preparazioni molto diverse, capaci di esaltarne le note di frutta fermentata e i sapori terziari di marmellata e frutta sotto spirito. Bibbiana, a testimonianza di ciò, ha invitato ad intervenire all’incontro il cuoco Diego Rossi della Trattoria Trippa di Milano. Veronese di origine due anni fa ritrova nella cucina della madre questo antico pero che gli ricorda subito gli anni dell’infanzia. Decide quindi di valorizzarlo nella sua cucina. Racconta Diego che si può mangiare crudo, una volta sovramaturo, quando, tagliandolo a metà fa la caratteristica goccia che ricorda quella del gorgonzola. Oppure, appena colto, ancora acerbo, si può cuocere e abbinare al formaggio. Ma lo si può usare anche nei ravioli, magari in abbinamento al Monte Veronese di malga oppure nelle preparazioni di dolci. È un frutto che si inserisce nella concezione di cucina di Diego, alla ricerca della tradizione del domani che è il risultato della combinazione dei prodotti stagionali del territorio. Il suo ristorante si trova a Milano ma “è difficile cucinare con l’asfalto”. Per questo Diego va alla ricerca dei sapori autentici dei territori e li porta in città, facendosi ambasciatore delle terre alte e dei territori interni di tutta Italia. In questo modo, presentando e spiegando i piatti e i loro ingredienti, Diego fa cultura e trasmette nei piatti paesaggi e tradizioni. Per Bibbiana parlare del Pero misso vuol dire soprattutto sottolineare l’importanza della cura e della conservazione delle varietà antiche e comunicare il proprio territorio con le sue bellezze naturali. A testimonianza del legame che il Pero misso sta creando con il territorio è intervenuta la Presidente della Pro Loco di Sant’Anna Alfaedo Marcella Marconi che ha ricordato la centralità che il Pero misso sta acquistando nelle manifestazioni locali come, in particolare il “Palio dei gnocchi de montagna” che si tiene ogni anno nella struttura fortificata del Forte Monteteso. E anche i ristoratori locali stanno cercando di valorizzare il Pero misso nei loro menù. Anche Leonardo Ceradini, Presidente della Pro Loco di Molina di Fumane, insiste sul legame con il territorio, soprattutto nel passato e l’importanza di raccontare questo prodotto. Leonardo lo ha fatto attraverso racconti e poesie. L’intervento della fiduciaria Slow Food della Condotta di Verona, Antonella Bampa, ci ricorda la ricchezza del territorio della montagna veronese dove son stati individuati altri due importanti Presìdi, il Monte veronese di Malga e la Pecora brogna. La serata si è conclusa con un emozionante ricordo di Bibbiana, con il quale ha spiegato un altro soprannome di questo frutto, chiamato da alcuni “frutto della memoria”. Ad un evento di degustazione, qualche anno fa, un signore pugliese di origini veronesi ha chiesto di poter assaggiare la confettura di Pero misso. Come messa in bocca il signore ha chiuso gli occhi, riaprendoli poi velati di lacrime dicendo: “Ti ringrazio tanto, assaggiando la confettura di Per misso ho rivisto mia nonna”.
Road to mountains - 5° il Pero misso Presidio Slow Food content media
0
0
8
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
04 mar 2021
In Road to mountains
L’incontro con Federico Chierico e Federico Rial di "Payssage à Manger" ci ha dimostrato come il percorso “Road to mountains” ci porti a conoscere il mondo dell’agricoltura di montagna da prospettive sempre diverse. Con Federico Rial e Federico Chierico siamo andati in Valle d’Aosta, più precisamente nella valle di Gressoney-Saint Jean, ai piedi del Monte Rosa. Qui nel 2014 i due giovani hanno fondato un’impresa agricola dal nome che è già rivelatore di una precisa idea di agricoltura: “Paysage à Manger”. Federico Chierico è originario di Biella dove ha vissuto e studiato fino al 2011 quando approda nella valle di Gressoney. Il luogo delle estati da bambino e ragazzo, luogo del cuore al quale ha sempre voluto ritornare. Federico Rial invece è nato qui e a studiato al Politecnico di Torino Ambiente e territorio, un percorso di studi portato a termine con l’ambizione di tornare nel proprio territorio e potersi dedicare al suo sviluppo. Al centro della loro attività l’agricoltura di montagna che nei secoli ha dato forma ai paesaggi e l’obiettivo di restituirle il suo ruolo identitario, dando dignità a chi lavora la terra e costruendo solide reti interne alla comunità. Il progetto si compone di un orto dove si producono gli ortaggi per la vendita diretta rivolta alla comunità locale e ai turisti. La coltivazione delle patate, invece, viene veicolata maggiormente al di fuori della valle, intercettando privati e ristoranti attenti all’alta qualità. Le patate coltivate sono antiche varietà delle Alpi, selezionate grazie alla collaborazione con la Fondazione svizzera ProSpecieRara che fin dagli anni Ottanta conserva e preserva semi di varietà a rischio di scomparsa. La ricerca per individuare le varietà ha portato Federico e Federico a incontrare la memoria storica orale della valle, riscoprendo così il legame fortissimo tra la comunità e le varietà locali. L’avvio della ricerca è stato però molto complesso. In prima battuta istituzioni e agricoltori avevano risposto in modo unanime che ormai non esistevano più varietà antiche. A testimonianza di un mondo rurale che era stato messo da parte poiché ad un certo momento della storia aveva perso significato. I ragazzi di “Paysage à Manger” son stati allora nelle case degli anziani, nei più remoti villaggi rurali riscoprendo il significato simbolico che il mondo rurale dava al cibo. Un valore che non era legato al fatto che di cibo ce ne era poco ma alla tradizione di tramandare di generazione in generazione i semi. Un passaggio importante, sancito anche dal fatto che fino a metà Ottocento i semi facevano parte dei corredi di nozze, poiché quei semi avrebbero garantito alle generazioni successive di che sfamarsi. Questo profondo significato è sopravvissuto finché il mondo rurale non è andato in crisi. Le varietà antiche son state quindi messe da parte e anche il mondo di queste vallate alpine si è indirizzato su altri binari. Da questa consapevolezza nasce il primo interrogativo che si sono posti Federico Chierico e Federico Rial. Come valorizzare queste patate evitando che diventino a loro volta una semplice merce? L’obiettivo è stato quindi riuscire a condividere i valori di questo mondo rurale riscoperto, la sua relazione con il cibo, la forza e la bellezza del rapporto quotidiano con la terra e i suoi frutti. Soprattutto in una prospettiva che guarda al futuro dopo anni in cui si è cercato di portare in montagna un modello produttivo, e di vita, proprio della pianura e in cui le terre alte sono state considerate delle aree periferiche ad uso e consumo della città. La montagna, nella visione dei due Federico, deve “de-pianurizzarsi”, avere un modello di sviluppo armonico con le sue risorse e, soprattutto, deve ragionare a partire da se stessa. Le terre alte sono un mondo che racchiude tantissimi valori che devono essere riattualizzati per creare scambi e legami tra le comunità alpine. In questo ambizioso processo “Paysage a Manger” si è sviluppata grazie alla forza e alla caparbietà dei fondatori, senza assistenzialismo ma cogliendo le opportunità. Tra queste fondamentale l’esperienza di Re StartAlp, l’incubatore per imprese del territorio alpino promosso da Fondazione Cariplo e Fondazione Edoardo Garrone. Questa esperienza ha dato le basi economiche e importanti apporti esperienziali e creato una rete di contatti fondamentale per alimentare il progetto. Anche il legame con Slow Food è stato fondamentale. La varietà Verrayes di patate è da poco divenuta un Presidio e con la collaborazione dell’Associazione Dislivelli si sta organizzando un progetto di formazione interno alla rete di produttori del territorio volto a sensibilizzare e creare una coscienza collettiva dei produttori. In prospettiva Federico Chierico e Federico Rial ci hanno raccontato del loro desiderio di coinvolgere altre comunità alpine, coinvolgere altri produttori e aree, riappropriarsi dell’idea di comunità e della centralità del proprio territorio. Per affrontare le difficoltà è fondamentale una visione di insieme, fare sistema. Innanzitutto con una gestione più sistemica dei terreni e poi l’agricoltura deve essere uno dei temi della politica e delle amministrazioni, non relegata a prodotto tipico o a folklore al servizio del turismo. L’incontro è stato arricchito dall’intervento del prof. Annibale Salsa che ha sottolineato l’importanza delle popolazioni Walser e della cultura agricola ed esse connesse. Almeno 6 delle varietà di patate coltivate da “Paysage à Manger” sono tradizionali delle colonie Walser. L’epopea di queste popolazioni è fondamentale per la civilizzazione dell’alta montagna. Michele Nardelli, Consigliere nazionale di Slow Food, ha invece sollecitato una riflessione in merito ai risvolti della pandemia anche in questi territori montani. La risposta dei ragazzi di “Paysage à Manger” è stata confortante. Gressoney ha fortunatamente un turismo di qualità e nel corso del 2020 si è formata una specie di “comunità liquida” con persone che da marzo 2020 non sono più scese in città. Federico Rial ci trasmette la suggestione di un bisogno di consumo che si è spostato ed ora sembra più orientato alla ricerca dell’aria fresca, delle dinamiche sociali migliori, della voglia di condivisione e di entrare in contatto con la comunità. La risposta ai problemi che i cambiamenti innescati dalla pandemia possono portare (over-tourism, speculazione immobiliare, ecc…) è proprio nell’affermarsi della propria identità e in questo l’agricoltura ha un ruolo centrale.
Road to mountains - 4° incontro: la patate di Verrayes Presidio Slow Food content media
0
0
54
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
21 feb 2021
In Road to mountains
Il terzo appuntamento con “Road to mountains” ci ha permesso di tracciare prospettive nuove sul tema delle terre alte. Nel primo incontro abbiamo incontrato Gabriele Crudo e con lui indagato le difficoltà di portare avanti una piccola azienda nelle aree montane della Calabria, facendo fronte all’abbandono delle terre causato da una concorrenza spietata sui prezzi che ha reso difficile il ricambio generazionale creando una frattura sul territorio che lentamente si sta cercando di ricomporsi ricercando nuovi mercati, puntando sul servizio, su nuove tecnologie e sul turismo. Con Carlo Mazzoleni la settimana successiva abbiamo affrontato una problematica diversa e cioè la difficoltà di far sopravvivere una tradizione casearia centenaria di fronte alle spinte di poteri economici più forti e di un sistema legato alle regole dell’agroindustria. Scoprendo però anche il valore che questa ribellione ha generato rendendo lo Storico ribelle (ex Bitto storico) conosciuto e ricercato in tutto il mondo. Il terzo incontro ci porta in Centro Italia, in Abruzzo, ai piedi del Gran Sasso, a Santo Stefano di Sessanio, per incontrare Ettore Ciarrocca. Ingegnere meccanico per quindici anni nel 2014 decide di tornare ad occuparsi dell’azienda di famiglia nella quale da generazioni si coltivano le lenticchie. Furono i nonni a bonificare terre ostili per mettere a coltura la lenticchia. Il padre, di professione professore, ha proseguito nella loro coltivazione come attività di completamento del reddito. Grazie alle attività agricole e ai loro proventi una generazione intera ha potuto studiare, come Ettore. Il ritorno ha avuto una causa traumatica: il fallimento dell’azienda per la quale Ettore lavorava. Ma le conoscenze acquisite negli studi hanno permesso a Ettore di approcciarsi al mondo agricolo in modo diverso. Il territorio nel quale Ettore è tornato nel frattempo era stato protagonista di una rivoluzione. A causa dell’abbandono negli anni 70 e 80 ha mantenuto intatto il suo fascino e non è stato interessato da nuova urbanizzazione. Poi la buona volontà di alcuni abitanti ha colto precise opportunità e Santo Stefano di Sessanio è diventato un fenomeno più unico che raro. Amministrazione, ristoratori, agricoltori hanno iniziato a lavorare in un’unica direzione e, complice la bellezza del paesaggio e la qualità dei prodotti della terra, è esploso un fenomeno turistico. Nel 2004 la prima svolta: il paese, con poco più di sessanta abitanti, era attrezzato per ospitare 55 turisti: un intero pullman. Oggi si contano più di 200 posti letto e 35.000 presenza l’anno. E nel 2004 ha avvio anche un altro fenomeno. L’imprenditore italo-danese Daniele Kihlgren crea uno dei primi alberghi diffusi d’Italia. Prima della pandemia a Santo Stefano di Sessanio arrivavano pullman con turisti da tutto il mondo. Nei nove ristoranti del paese si trovano solo prodotti locali, soprattutto la lenticchia, in questo modo valorizzata e promossa. Ciò permette a Ettore e agli altri agricoltori di poter mantenere un prezzo adeguato ad affrontare le difficoltà delle coltivazioni in montagna. La resistenza degli agricoltori è resa possibile anche da un sistema di “banca delle ore” grazie alla quale il mutuo aiuto diventa una risorsa inestimabile. Le innovazioni tecnologiche, anche frutto della preparazione di Ettore, hanno permesso di impiegare molta meno manodopera nel lavoro dei campi. Oggi Ettore può raccogliere da solo 7 ettari di lenticchie, la generazione dei suoi nonni raccoglievano un ettaro impiegando il lavoro di due famiglie. Non mancano le difficoltà. La prima fra tutte rappresentata dalla fauna selvatica del parco nazionale del Gran Sasso in cui si trova il paese. Si tratta del primo parco antropizzato in Italia ma la convivenza tra animali e attività agricole e sempre più complessa. Ettore e gli altri produttori vivono sempre l’angoscia di poter perdere da una notte all’altra tutto il raccolto di una stagione. Purtroppo la situazione è lo specchio di un conflitto mai risolto tra l’ambientalismo cittadino e chi la montagna la vive e lavora. Prezioso nel corso della serata l’intervento su questo tema del professore Annibale Salsa che ha sottolineato l’importanza di preservare il paesaggio, inteso come incontro tra natura e cultura, e la biodiversità che a volte può essere messa in pericolo dalla fauna selvatica. Ettore ha così raccontato esperienze diretta delle contraddizioni che questo approccio ai sistemi dei parchi nazionali causa. L’assurdo dei risarcimenti per i raccolti persi, la sparizione delle specie di uccelli che nidificano a terra, gli equilibri naturali distrutti e invertiti. La pandemia ha ricordato agli abitanti del paese il valore dell’esperienza di turismo territoriale che sono stati in grado di creare, il valore delle produzioni locali e del lavoro di comunità. L’accoglienza a Santo Stefano non è fatta da professionisti del turismo ma da ritornanti con formazioni diverse. Ma proprio per questo è autentica e dà ai visitatori una reale esperienza. I progetti di Ettore per i prossimi anni si scontrano innanzitutto con i pericoli legati alla fauna selvatica, solo riuscendo ad affrontarli in modo scevro da ideologie saranno risolti e l’attività degli agricoltori nel parco nazionale potrà proseguire. Nel futuro ci sono progetti per un mercato contadino, fattorie didattiche, anche legate all’agricoltura sociale.
Road to mountains - 3° incontro: la Lenticchia di Santo Stefano di Sessanio Presidio Slow Food content media
0
0
18
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
14 feb 2021
In Road to mountains
Il percorso “Road to mountains” prosegue incontrando Carlo Mazzoleni per scoprire la storia del formaggio Storico Ribelle, emblema della resistenza casearia in Val Gerola. L’incontro parte da una riflessione del fondatore del Consorzio dello Storico Ribelle, Paolo Ciapparelli: “siamo diventati eversivi perché volevamo che le bestie mangiassero l’erba”. Con questa frase paradossala Carlo ci racconta come ancora oggi viene prodotto il formaggio, con un sistema che si tramanda da secoli. Elemento fondamentale è il pascolo turnato razionato a stazioni attraverso le quali ogni “caricatore” porta i suoi animali da 1.400 fino sopra i 2.000 metri. Ogni sosta dura il giusto tempo affiche si esaurisca quello che quel pascolo ha da offrire. In questo modo vengono anche mantenuti i pascoli e si riafferma l’importanza che questo formaggio ha avuto dal punto di vista ambientale e per la definizione del paesaggio. Insieme agli animali, mucche e capre, si muove anche un piccolo caseificio itinerante, il calec, nel quale il latte appena munto viene lavorato a caldo. Un’usanza che nasce per ragioni di salubrità. I latte ancora caldo non permetteva la proliferazione batterica. Da questi procedimenti derivano le caratteristiche dello Storico ribelle, un formaggio che non è mai standard, sempre diverso e con una straordinaria attitudine all’invecchiamento. Verso la fine degli anni novanta il mondo del formaggio che era sempre stato fatto in questo modo, e che da sempre si chiamava Bitto, viene stravolto. Nasce la Dop del Bitto, si allarga l’area di produzione, si inseriscono per disciplinare fermenti e mangimi nelle fasi di produzione. Per questo Paolo Ciapparelli fonda il Consorzio del Bitto Storico prima, dello Storico ribelle quando non sarà più possibile utilizzare il nome di Bitto per chi lo produce ancora in modo autentico. L’uso dei mangimi è il punto fermo dell’opposizione dei ribelli perché l’alimentazione a erba è fondamentale per garantire la biodiversità sui pascoli ma anche per trasferire al formaggio i suoi sentori caratteristici. I formaggi vengono conferiti al Consorzio che li stagiona nella casara di Gerola dove più di 2.000 forme restano ad invecchiare anche più di 10 anni. Questa caratteristica dello Storico ribelle è stata utilizzata anche per creare un sistema di autofinanziamento. Le forme più adatte ad invecchiare vengono acquistate e tenute nella casera a invecchiare e aperte per le grandi occasioni. Così lo Storico ribelle diventa qualcos’altro, non più solo un formaggio, ma un vero e proprio movimento d’opinione. Grazie al Presidio Slow Food esce dai confini della valle e nazionali e la sua storia si conosce in tutto il mondo. I “caricatori” dello Storico ribelle hanno sfidato un sistema e continuano a sfidarlo. Oggi sono 10 gli allevatori che caricano l’alpeggio. Metà di loro ha meno di quarant’anni, alcuni sono figli d’arte e portano avanti la tradizione di famiglia, altri invece sono giovane che si sono innamorati di questo lavoro. I giovani affrontano il mestiere del casaro con una nuova consapevolezza, con la capacità di accogliere i turisti, spesso anche stranieri, e di usare le tecnologie. Anche se il loro impegno di ritornanti avviene nella totale indifferenza delle istituzioni e senza alcun sostegno. Lo Storico ribelle è rivoluzionario anche perché ha il coraggio di essere venduto a un prezzo molto superiore rispetto a molti altri formaggi e soprattutto rispetto al Bitto DOP. Un prezzo che nasce innanzitutto dalla giusta remunerazione dei casari ai quali Paolo chiese quanto volessero che il loro latte fosse pagato per mantenere il sistema tradizionale di pascolo. A partire quindi da una materia prima pagata quasi il doppio si è definito un prezzo di vendita importante. Nonostante il prezzo il prodotto viene sempre venduto da chi riesce a raccontare questa storia e farne capire l’importanza. Purtroppo ben poco localmente, come spesso accade. A parte qualche piccola eccezione la ristorazione della Valtellina. Sono state molte le domande da parte dei partecipanti. Diego Lenzi, produttore di formaggio a Lavarone, ha posto molte domande tecniche sulla lavorazione del latte, sull’alimentazione e sulla mungitura. Gabriele, rappresentante dell’associazione Plastic Free ha invece posto una domanda sull’utilizzo della plastica. Carlo in risposta ha raccontato come l’utilizzo delle assi di legno nella casera è stato addirittura contestato da parte dell’asl locale che ha dovuto poi accettarne l’impiego una volta dimostrato il suo ruolo fondamentale nell’invecchiamento dello Storico ribelle. Per il 2030 il Consorzio ha davanti una grande sfida. Per allora, infatti, scadrà il contratto di affitto trentennale della casera, di proprietà del Comune di Gerola. Negli anni i rapporti sono stati spesso tesi e Carlo spera che nei prossimi dieci anni queste tensioni possano essere ricucite e la resistenza dei casari dello Storico ribelle possa proseguire. Foto Roberto Moiola per Storico Ribelle
Road to mountains - 2° incontro: lo Storico Ribelle Presidio Slow Food content media
0
0
17
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
06 feb 2021
In Road to mountains
Abbandono della montagna Minacce: · Mancato ricambio generazionale · Stigma verso il lavoro della terra · Poca remunerazione dei prodotti Opportunità: · Produzioni di qualità · Ricerca di mercati che valorizzino il prodotto (GAS, ristoratori, mercati) · Servizio · Nuove tecnologie hanno reso il lavoro meno faticoso e usurante · Concorrenza dei prodotti di pianura Minacce: · Convenienza economica di agricoltura e allevamento intensivo · Logiche della GDO · Logistica complessa Opportunità: · Creazione del Presidio Slow Food · Non rinunciare alla qualità · Servizio basato sul rapporto umano · Centralità di altre aree Minacce: · Decisori politici non a conoscenza delle dinamiche di montagna · Turismo concentrato lunghe le coste · Mancanza di aiuti Opportunità: · Riscoperta del valore della comunità · Sinergia con proposte turistiche · Bellezza di un paesaggio autentico e non contaminato
0
0
29
SlowFoodAltoAdigeSüdtirol
04 feb 2021
In Road to mountains
Nel primo incontro di “Road to mountains” abbiamo incontrato Gabriele Crudo che gestisce la sua azienda sull’altipiani del Monte Poro, in Calabria, producendo un pecorino Presidio Slow Food. La storia dell’azienda risale ai nonni di Gabriele, quando l’altipiano era popolato di moltissime aziende familiari che vivevano una agricoltura fiorente e produttiva. Gabriele ci ha raccontato i problemi degli ultimi decenni con lo spopolamento conseguente al mancato ricambio generazionale. La scelta quindi di molti giovani di raggiungere paesi più grandi della Calabria o di migrare al nord, scegliere altre professioni considerate meno umili del lavoro della terra e con migliori prospettive economiche. Anche Gabriele, terminate le scuole alberghiere, decide di indirizzare altrove le proprie scelte di vita. Ma la lontananza dell’altipiano e dalla tradizione di famiglia dura poco. Dopo soli due anni Gabriele ritorna a Monte Poro e inizia a lavorare nell’azienda, riconoscendo che è in questa attività che ha trovato la sua vocazione e la sua felicità. Ci si dedica anima e corpo, insieme ai famigliari. Le problematiche che ci racconta sono quelle comuni a molte terre alte e che stiamo riscontrando anche negli Altipiani Cimbri e in molte vallate trentine, anche se ci troviamo al capo opposto d’Italia. Gabriele ci racconta delle difficoltà affrontate per rendere economicamente sostenibile il lavoro della sua azienda. Innanzitutto scontrandosi con i problemi degli allevamenti intensivi che caratterizzano altre zone e che permettono ai prodotti di avere dei prezzi di produzione molto inferiori rispetto al pecorino del Monte Poro. A questo primo ostacolo Gabriele ha risposto non rinunciando mai alla massima qualità. Sono state mantenute razze ovine autoctone, poco produttive e difficili da gestire, ma che danno un latte di eccellente qualità che viene sempre lavorato crudo e senza l’ausilio di fermenti industriali. Anche il servizio contraddistingue il lavoro di Gabriele. I clienti, sia privati che ristoranti, ricevono ricotte e pecorini direttamente a casa loro, creando così un rapporto di fiducia e conoscenza fondamentale. Un continuo incontro e confronto tra il produttore e chi acquista il prodotto che permette di far evolvere sempre la propria azienda. Gabriele porta i prodotti in qualche mercato locale e in alcuni GAS. È socio di una cooperativa che fa parte del progetto SOS Rosarno. Comunità è l’altra parola chiave della resistenza di Gabriele sull’Altipiano. Combattere l’individualismo che negli anni ha portato all’abbandono e cercare di unirsi con altri produttori della zona. In questo ha avuto una grandissima importanza il progetto de Presidio Slow Food che ha realmente consolidato i rapporti tra i produttori e dato consapevolezza dell’importanza del proprio lavoro. Purtroppo però l’altipiano fa ancora da sfondo a moltissime aziende deserte, anche se qualche giovane, timidamente si sta affacciando all’agricoltura e ai lavori della terra. La centralità della città e della costa è un’altra minaccia con cui bisogna fare i conti. Decisori poco consapevoli delle esigenze di questo territorio hanno fatto negli anni scelte che si sono rivelate sbagliate. Basti pensare che metà territorio dell’altipiano non è nemmeno inserito nelle aree svantaggiate. Arrivano pochi aiuti sul Monte Poro. Solo negli ultimi anni è possibile contare su alcuni interventi specifici del GAL Gruppo di Azione Locale che affianca imprese agricole in investimenti e ammodernamenti. Anche i cambiamenti climatici sono un nuovo ostacolo. L’aumento delle temperature ha comportato cambiamenti nei prati che pascolano le pecore e ha portato a dei cambiamenti nell’altezza e tipologia di orticole coltivate. L’altopiano del Monte Poro si trova a pochi chilometri da Tropea e dalla costa che ogni anno ospita milioni di turisti. Solo una piccola parte di questi si spostano nell’entroterra per scoprire l’autenticità di un territorio ancora non contaminato. Per aumentare i risultati della propria azienda e soprattutto per far scoprire il proprio lavoro, Gabriele ha iniziato a sviluppare un agriturismo dove è possibile mangiare i prodotti degli altipiani. In cucina la madre di Gabriele con alcuni piatti semplici della tradizione calabrese come i filei alla ‘nduja, il pecorino, le corolle con farina del proprio grano e le patate, la carne nostrana. La sinergia con il turismo è una delle chiavi per affrontare le sfide dei prossimi anni. Il nuovo progetto prevede di creare anche un bed & breakfast per offrire ai visitatori un’esperienza di turismo slow, un’esperienza autentica, trasmettere la cultura del prodotto.
Primo incontro Road to moutains - Gabriele Crudo e il pecorino del Monte Poro Presidio Slow Food (il racconto) content media
0
2
225

SlowFoodAltoAdigeSüdtirol

Amministratore
Altre azioni
bottom of page