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Intervista a Laura Endrighi "Un futuro diverso parte dal piatto"

Grazie a il T quotidiano ogni secondo e quarto venerdì del mese, Slow Food Trentino cura a partire dal 14 febbraio 2025 una rubrica sulla pagina Terra Madre. Questo articolo è stato pubblicato il 25 aprile 2025.



Ciao Laura, leggiamo nel tuo profilo professionale che sei una psicologa clinica esperta nell'educazione del comportamento alimentare, ci spieghi qual è il tuo ruolo, a chi ti rivolgi e perché il tuo approccio è diverso rispetto a quello di un nutrizionista o di un esperto di disturbi almentari?


Sono una psicologa clinica esperta nel comportamento alimentare, una figura professionale ancora poco conosciuta ma che risponde a un bisogno molto concreto: quello di chi non rientra nei disturbi del comportamento alimentare, ma ha comunque un rapporto complesso con il cibo, fatto di tentativi, frustrazioni e difficoltà nel cambiare davvero le proprie abitudini.

Mi occupo di quella zona grigia in cui si trovano persone che, per motivi di salute, etici o personali, devono modificare il modo in cui mangiano, ma non riescono a farlo in modo stabile. Non basta sapere cosa o quanto mangiare: il problema raramente sta nella teoria, ma quasi sempre nella pratica quotidiana.

Lavoro con chi ha già provato più volte a seguire piani nutrizionali senza successo duraturo, o con chi – dopo una diagnosi – si trova a dover introdurre nuove abitudini senza sapere come farlo davvero, spesso in modo incoerente o inefficace.

Il mio compito è proprio quello di aiutare a colmare questo divario tra teoria e realtà. Esploro insieme alla persona i significati, le emozioni, le abitudini e le credenze legate al cibo. Faccio psico-educazione, spiegando come funziona il sistema di autoregolazione, qual è il ruolo dei sensi e del piacere, e come si possa costruire un’alimentazione più sana e sostenibile, senza rigidità né perfezionismi.

Spesso collaboro con altri professionisti del benessere, soprattutto nutrizionisti, per offrire un supporto integrato e rispettoso della complessità del percorso.

Perché il cibo non è solo nutrizione: è storia personale, emozione, cultura, quotidianità. E imparare a mangiare davvero significa imparare a conoscersi meglio.




In queste settimane stai collaborando con un progetto Slow Food dedicato agli orti scolastici. Da quanti anni ti dedichi a incontrare i ragazzi? Hai notato dei cambiamenti nel loro rapportarsi al cibo? Quali prospettive vedi nell’approccio al cibo da parte delle generazioni più giovani?

Vado nelle scuole da sette anni ed è sempre un’occasione speciale di scambio. Nei laboratori che propongo lavoriamo sui significati del cibo, le abitudini, le emozioni e le influenze sociali. I ragazzi sono molto attenti e curiosi, perché difficilmente hanno occasione di parlare del cibo in questi termini, al di là delle regole o delle informazioni nutrizionali. Anche per me è un grande spazio di ascolto e apprendimento.

Negli anni ho osservato un cambiamento interessante: da parte delle famiglie c’è una crescente attenzione all’educazione alimentare. Stanno lentamente scomparendo alcune frasi rigide come “devi finire tutto quello che hai nel piatto” o i classici baratti “se mangi la verdura, poi ti do il dolce”. Questo aiuta a preservare la naturale capacità di autoregolazione che abbiamo da bambini.

Allo stesso tempo, però, per motivi di tempo o comodità, si ricorre più spesso a cibi pronti e processati riducendo la qualità e la varietà sensoriale dell’esperienza alimentare.

Tra gli adolescenti noto una crescente attenzione alla sostenibilità, al cibo vegetale, all’origine dei prodotti. Desiderano fare scelte consapevoli, ma spesso incontrano ostacoli familiari o difficoltà organizzative. E, non da ultimo, sono fortemente influenzati dai social, che promuovono diete iper-proteiche e modelli alimentari restrittivi. Il rischio è quello di una generazione che guarda con sospetto il pane, la pasta, i carboidrati in generale: una nuova forma di rigidità, diversa da quella del passato, ma non meno problematica.

La buona notizia è che, se si offre loro uno spazio vero di confronto, i ragazzi rispondono con entusiasmo e profondità. Hanno voglia di capire, di partecipare, di immaginare un futuro diverso – anche a partire da ciò che mettono nel piatto.


Slow Food ha lanciato un appello per l’educazione alimentare come materia obbligatoria nelle scuole. Dal tuo punto di vista, cosa non dovrebbe mancare per pensare a questo insegnamento?

Un’educazione alimentare che voglia lasciare il segno dovrebbe partire dai sensi. Allenare il gusto significa educare il palato alla varietà, alla lentezza, alla capacità di riconoscere il piacere in alimenti semplici e autentici.

È questo lavoro sulla sensorialità che permette di superare la ripetitività dei gusti iper-gratificanti e prevedibili, restituendo al pasto una dimensione più completa e appagante.

Accanto a questo, è essenziale introdurre un linguaggio libero dalla cultura della dieta, che insegni a riconoscere e decostruire parole come “sgarro”, “premio”, “deviazione”, capaci di generare rigidità e senso di colpa.

Infine, è fondamentale aprire uno spazio per esplorare i tanti significati del cibo: affettivi, familiari, sociali. Perché educare all’alimentazione non è solo trasmettere nozioni, ma accompagnare a osservare con più consapevolezza il proprio modo di mangiare.


Il sistema alimentare ha molto a che fare con la transizione ecologica. Tra i tuoi interessi di studio e confronto, soprattutto con ragazzi e ragazze, vi è il tema dell’ecoansia. Qual è la tua percezione su questo tema? È uno stato d’animo che può aiutare il cambiamento dei modelli o è un freno ai cambiamenti?


L’ecoansia è una reazione emotiva del tutto coerente con il tempo che stiamo vivendo: nasce da una preoccupazione reale ed è, a tutti gli effetti, una risposta adattiva. Per questo mi piace definirla una forma di ansia eco-logica.

Soprattutto tra i più giovani, è un vissuto sempre più frequente, che può diventare un motore potente di consapevolezza e di cambiamento, ma solo se trova ascolto, spazio di confronto e strumenti per tradursi in azione. Se invece viene ignorata o minimizzata, rischia di trasformarsi in blocco, frustrazione o disimpegno.

Nella mia esperienza, sia clinica che nelle scuole, è fondamentale aprire un dialogo intergenerazionale: non possiamo pretendere che siano le nuove generazioni a farsi carico da sole della transizione ecologica. Dovremmo piuttosto lasciarci contaminare dalla loro sensibilità e, come adulti, creare le condizioni culturali, sociali e concrete affinché possano agire in modo efficace.

Anche il cibo rientra in questo processo: scegliere cosa mangiare, come lo mangiamo e da dove arriva è prima di tutto un atto quotidiano, che riflette valori, possibilità, relazioni. È uno spazio reale in cui la sostenibilità può prendere forma, ogni giorno.


Si parla di “impoverimento alimentare” per riferirsi a un approccio all’alimentazione di scarsa qualità legato alle condizioni economiche, ma non solo: ci si riferisce anche a una componente di consapevolezza e di stile di vita. Quale ruolo può avere il supporto psicologico nel contrastare vecchie e nuove forme di povertà alimentare?


L’impoverimento alimentare oggi non riguarda solo la scarsità di risorse economiche. Spesso è legato alla mancanza di tempo, all’overload informativo, alla solitudine nel momento del pasto o a una stanchezza mentale che rende faticoso persino pensare a cosa cucinare.

Il supporto psicologico può offrire uno spazio per riorganizzare tutto questo: ridare significato al momento del pasto, sciogliere la pressione del dover fare “tutto bene”, costruire abitudini sostenibili che non siano perfette ma sufficientemente buone.

Più che dire cosa mangiare, accompagno le persone a capire come e perché mangiano in un certo modo, restituendo dignità anche ai piccoli gesti della quotidianità.


Nei tuoi incontri parli di un atto di gratitudine. Un approccio lento ci porta anche a conoscere meglio il cibo e le filiere che lo hanno portato fin sulle nostre tavole. Da quarant’anni Slow Food si batte per un cibo buono, pulito e giusto – tre temi solo apparentemente scollegati ma in realtà inscindibili, a patto che si restituisca significato all’atto del nutrirsi, dedicandogli il giusto tempo, attenzione, cura. Come sviluppare questa consapevolezza?


Riconoscere il cibo come atto di gratitudine significa uscire dalla logica del nutrizionismo – che riduce il mangiare a numeri e funzioni – per recuperare la dimensione affettiva, culturale, relazionale dell’alimentazione.

Significa sapere, ogni volta che è possibile, cosa stiamo mangiando, da dove viene, cosa rappresenta. Significa riconoscere la stagionalità, il lavoro, le mani che hanno reso possibile quel piatto. E significa anche concedersi di essere presenti, anche solo per un attimo, mentre si mangia.

Non si tratta di idealizzare il pasto, ma di restituirgli senso. La gratitudine è un atto di presenza che ci riconnette al gesto del nutrirsi, anche nei giorni più complicati.


Dichiari spesso di amare i social, che sono uno strumento fondamentale anche nel tuo lavoro. Sono uno strumento e, come tale, possono essere utilizzati in modo costruttivo e positivo oppure generare gravi danni. Come vedi rappresentato il sistema del cibo sui social?



Sui social il cibo è spesso rappresentato in modo estremo e polarizzato. Da un lato l’ossessione per la performance – piatti perfetti, diete impeccabili, macro conteggiati – e dall’altro il senso di colpa, la paura di “sgarrare”, la confusione.

Questo tipo di narrazione alimenta confusione e senso di inadeguatezza, soprattutto in chi già fatica a orientarsi nel proprio rapporto con il cibo. Ma accanto a questi messaggi semplificati e performativi, si stanno facendo spazio anche contenuti diversi: esperienze che parlano di stagionalità, di cibo condiviso, di recupero, di memoria.

Nel mio lavoro sui social cerco di dare voce a questa complessità concreta, fatta di piacere ma anche di stanchezza, di desideri e di bisogni veri. Racconto il cibo come gesto quotidiano, rispetto, cura, radicamento e lentezza.

 
 
 

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@ 2025 Slow Food Trentino Alto Adige Südtirol

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