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Il ponte tra Brentonico e Burundi per costruire il domani

Intervista di Anzhela Filatova per "Tavole migranti. Storie di cibo in movimento"


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L’associazione Il Melograno Brentonico ODV nasce nel 1994, anno in cui la famiglia di Mauro Dossi decide di aderire a un progetto di accoglienza. In quell’occasione arriva Josie, una ragazza burundese di 13 anni proveniente da un Paese segnato dal conflitto tra Hutu e Tutsi, lo stesso che in Rwanda avrebbe condotto al genocidio. In Burundi l’etnia dominante stilava periodicamente liste di bambini tra i 10 e i 15 anni appartenenti all’etnia “dominata” ma con possibilità economiche: quei bambini venivano eliminati per impedire la nascita di una futura classe istruita. Josie era figlia di un ex Ministro dell’Istruzione coinvolto nel processo di pace degli accordi di Arusha, avvelenato nel 1997 durante una cena di ringraziamento per il suo impegno nella riconciliazione. Lei visse l’essere stata mandata in Italia come un tradimento, mentre i genitori avevano tentato di salvarle la vita. Quando chiese a Mauro di accompagnarla al funerale, il Paese era sotto embargo e il viaggio divenne un percorso clandestino. Quell’arrivo in Burundi fu uno shock: bambini soli e affamati, organizzati in bande per sopravvivere; un orfanotrofio che sembrava un pollaio; una suora che gli disse solo: “Mauro, dacci una mano”. Tornato in Italia, nemmeno il lavoro alla Marangoni riuscì a distoglierlo da quelle immagini. È in quel momento che prende forma la consapevolezza che diventerà l’origine dell’associazione: non si poteva restare indifferenti, soprattutto davanti ai soggetti più vulnerabili, ovvero bambini e donne, che negli anni si sarebbero rivelate non solo gli “anelli deboli”, ma anche le persone più affidabili nella gestione dei progetti a lungo termine. 

Accanto a questo impegno, negli anni Il Melograno ha avviato diversi progetti di gemellaggio che hanno consolidato il legame tra Brentonico e il Burundi. Tra questi possiamo trovare il progetto di gemellaggio tra il Comune di Brentonico e il Comune di Muynga, tra Istituto Scolastico di Brentonico e la Scuola di Kuvoga e la Scuola materna di Crosano con la Scuola materna di Busiga. 


A: In che cosa consiste il vostro operato in Burundi e Tanzania? 

M: Quello su cui stiamo lavorando negli ultimi anni è la creazione di posti di lavoro e reddito. Quindi abbiamo costruito una falegnameria, un garage per aggiustare le macchine, un laboratorio di cucito, un caseificio e una cooperativa agricola di donne. Tendiamo a portare all’interno di queste strutture principalmente i ragazzi orfani che avevamo nell’orfanotrofio. In tutte queste attività diamo occupazione a più di 100 persone. Ciò significa che garantiamo sussistenza, cioè entrate, ad almeno 400 persone, perché ognuna di loro mantiene una famiglia. Quelle strutture non sono nostre: le affidiamo ai nostri referenti, che nella stragrande maggioranza dei casi sono una congregazione di suore. La nostra associazione non ha un’identificazione religiosa né politica. Quando affidiamo queste strutture, stipuliamo una convenzione: noi costruiamo l’edificio, e il 50% dell’utile prodotto, ad esempio, dalla falegnameria deve essere versato all’orfanotrofio. Vale lo stesso per tutte le strutture, per introdurre il concetto di autofinanziamento e soprattutto di indipendenza da noi. Perché l’obiettivo che abbiamo è che loro non siano indipendenti da noi. 


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A: In che cosa consistono le spedizioni organizzate dall’associazione?

M: Le spedizioni che organizziamo consistono principalmente nel condividere competenze pratiche che possano essere utili e sostenibili nel tempo. Per esempio, Orazio a inizio gennaio parte per la Tanzania per insegnare la lavorazione degli insaccati, mentre a ottobre abbiamo tenuto un corso dedicato alla conservazione degli alimenti. Abbiamo portato la tradizione trentina della carne salada, le tecniche per trasformare il cavolo cappuccio in crauti e tutte le modalità di preparazione della giardiniera, sia sott’olio sia sotto aceto — dalle carote alle cipolle. Tutto questo serve a offrire strumenti a chi non ha frigoriferi e rischia di dover consumare il raccolto entro un giorno, permettendo invece di valorizzare i prodotti e conservarli più a lungo.

Questo approccio rientra nella nostra filosofia: non andiamo solo a “dare”, perché è vero che bisogna anche garantire il cibo di oggi, ma soprattutto vogliamo insegnare come poter mangiare anche domani. Ci mettiamo in relazione con le persone per capire se e come possiamo trasmettere queste conoscenze. La nostra cultura ci porta a pensare, programmare e realizzare, ma in contesti dove programmare è un lusso possibile solo per pochi dobbiamo essere noi ad adattarci alla loro realtà, e non il contrario. È uno degli errori più comuni tra i volontari, e che cerchiamo consapevolmente di evitare.


A: Come è nato il progetto del caseificio in Burundi? 

M: Il progetto del caseificio nasce quando i contadini locali ci segnalano che le mucche producono pochissimo latte, appena 2–3 litri al giorno. Dopo aver consultato gli allevatori di Trento, scopriamo che migliorando l’igiene della riproduzione la produzione potrebbe raddoppiare. Avviamo così un progetto di fecondazione artificiale insieme agli agricoltori di Brentonico, che si recano in Burundi per insegnare le tecniche necessarie: su 150 mucche inseminate nascono 120 vitelli, ma la filiera si interrompe subito perché i commercianti della capitale acquistano tutti gli animali a prezzi altissimi, sottraendoli ai contadini.

Nel frattempo emerge un nuovo problema: anche quando il latte viene prodotto, la popolazione locale non può permettersi di comprarlo, mentre trasportarlo nella capitale — distante oltre 200 km — è impossibile. Da qui nasce l’idea del caseificio: creare un luogo in cui trasformare il latte in formaggio, un prodotto quasi sconosciuto in zona, così da renderlo conservabile e vendibile. Acquistiamo le attrezzature appartenute a una pastora etiope uccisa, Agitu, e le portiamo in Burundi. È qui che entra in gioco Orazio Schelfi: come esperto casaro scende sul posto per formare gli operatori locali e insegnare tutte le fasi della produzione.

Oggi il caseificio è attivo e il formaggio viene venduto nella capitale, garantendo ai contadini una nuova fonte di reddito e una filiera finalmente sostenibile.


A: Perché la figura del referente locale è fondamentale nei vostri progetti? 

M: Il referente locale è essenziale perché permette di comprendere davvero la cultura del posto e i rischi specifici di ogni situazione. La seconda volta che sono tornato in Burundi, ho incontrato molti casi di donne violentate, e fu proprio un referente a spiegarmi il meccanismo culturale che le esponeva a tali violenze: se una donna non ha nulla e un uomo le offre, per esempio, un chilo di farina, lui si sente culturalmente autorizzato ad approfittarsi di lei.

Questa comprensione è stata decisiva per costruire il nostro progetto. Io stesso, senza ascoltare il referente, commisi un errore enorme: comprai 50 capre tutte insieme da distribuire alle donne. Questo fece salire i prezzi e attirò una banda armata che, di notte, picchiò le donne e rubò tutto.

Allora coinvolgemmo un agronomo locale, gli affidammo le capre e la gestione del progetto. Grazie al suo metodo — acquistare poco alla volta, consegnare le capre direttamente alle donne e chiedere solo il primo nato come restituzione — dal 2004 a oggi siamo riusciti a distribuire più di 4.000 capre.

Il referente è il nostro occhio sul territorio: ci segnala cosa funziona e cosa no, quali rischi esistono e quali dinamiche sociali non potremmo mai percepire da soli. Il referente ci aiuta a strutturare i progetti in modo realistico, senza di lui rischieremmo non solo di fallire, ma di fare seri danni.


A: Quali prospettive future avete? 

M: Abbiamo due grandi preoccupazioni. La questione generazionale, perchè siamo circa 70 soci, ma 50–55 hanno più di 60 anni. I giovani oggi hanno vite molto fluide e non riescono a garantire un impegno costante come una volta. Temiamo per la continuità dell’associazione. Per questo abbiamo introdotto il principio dell’autosufficienza al 50%: un giorno, se noi non ci saremo più, le strutture dovranno poter sostenersi almeno in parte. Inoltre in questi giorni stiamo lavorando per creare una rete a livello nazionale di tutte le associazioni italiane che operano in Burundi. Noi ci siamo accorti, perché pensavamo di essere una decina, che in realtà siamo quasi 100 associazioni italiane attive in Burundi. Questo ci da fiducia, la speranza che, quando l’associazione non ci sarà più, qualcun altro possa continuare a portare avanti i nostri progetti. 

Poi ci preoccupa la questione economica e culturale in Italia. Con i cambi politici sono stati tolti quasi tutti i contributi alle associazioni di solidarietà internazionale. Qualcosa è rimasto solo come “parvenza” per le emergenze, ma non funziona. Se per un progetto devi trovare il 100% dei fondi è complicatissimo; il 40–50% era sostenibile. Inoltre è un problema culturale: così facendo si disincentiva l’aggregazione, che invece è fondamentale per le nostre comunità locali, perché i volontari che vanno in Africa sono anche quelli che operano sul territorio, portando e riportando cultura.


 
 
 

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